Dopo essere stata a Bologna alla quarta edizione del corso “Impariamo a leggere” organizzato dall’Associazione Culturale Hamelin, mi sono avvicinata al mondo delle fiabe e al loro linguaggio, fatto di simboli che rimandano a un immaginario collettivo.
Per approfondire l’argomento ho letto il libro Mi racconti una storia? Perché narrare fiabe ai bambini, scritto da Giancarlo Chirico, pubblicato da Meltemi editore, giugno 2019. Questa lettura mi ha chiarito alcuni complessi interrogativi sul fiabesco, e allo stesso tempo ha generato in me nuove curiosità e riflessioni. Voglio proporvi allora qui di seguito la chiacchierata virtuale che ho avuto l’onore di fare con l’autore, ringraziandolo nuovamente per la sua disponibilità.
• Per prima cosa mi piacerebbe saperne di più sul tuo percorso formativo, e come questo ti abbia avvicinato al mondo delle fiabe. Insomma… hai voglia di parlarci un po’ di te?
Ricordo perfettamente il momento in cui ho deciso di ritornare all’università per studiare filosofia. Dopo la nascita di Anna Giulia, con mia moglie Barbara eravamo organizzati così: la notte “allattavo” io, per permetterle di riposare. E la notte era un momento davvero speciale: mi raccontavo ad Anna Giulia, le parlavo di quello che speravo per lei e di quello che avrei voluto per me. Finché una notte ammisi il mio grande rimpianto: avrei voluto studiare filosofia! Ne parlo con mia moglie, che mi appoggia incondizionatamente: proviamo un semestre, vediamo come va! Tre anni dopo ero laureato.
Il mio percorso di studi si interseca però con la vicenda terapeutica di Anna Giulia, che descrivo nel libro: la diagnosi di artrite (proprio il giorno del suo terzo compleanno), il nostro cuore affranto, la totale mancanza di parole, le difficoltà dopo l’infiltrazione, con Anna Giulia che non sa più saltare… per venirne fuori in qualche modo, mia moglie e io ripeschiamo nientemeno che la fiaba.
In quegli stessi mesi, all’Università, mi imbatto in una persona straordinaria, la professoressa Gasparetti: a lei casualmente racconto di Renè, la prima fiaba pensata e scritta con mia moglie per accompagnare nostra figlia nel suo difficilissimo percorso terapeutico: “Ma lei sa come si chiama quello che state facendo? Non è soltanto inventare una fiaba! È molto, molto di più… e vi riguarda da vicino, riguarda la vostra vita adesso, è qualcosa che dovete assolutamente esplorare. Facciamo così: legga questo libro e poi mi faccia sapere cosa ne pensa.” Marie-Louise von Franz, Le fiabe del lieto fine. Vediamo di che si tratta… Il libro mi ha letteralmente catturato: rivela aspetti conturbanti della letteratura fiabesca, aspetti di cui non conoscevo proprio nulla. Piano piano comincia a farsi strada in me l’idea che, attraverso la fiaba, Anna Giulia potesse esplorare territori ed elaborare esperienze altrimenti troppo lontani e troppo difficili per lei, mettendo in gioco risorse ed energie che altrimenti non avrebbe saputo di avere. Riuscire là dove il salto è semplicemente troppo arduo, proprio com’è successo a René. È così che nasce il mio progetto di tesi, il nucleo centrale del libro adesso pubblicato da Meltemi.
• Girando per gli scaffali delle librerie troviamo fiabe riadattate, pop-up, semplificate, e poi ci sono le versioni integrali. Cosa scegliere? E per quale età?
Nei miei interventi e nei seminari dico sempre che noi esseri umani siamo “cantastorie” per natura: non ci accontentiamo di usare la parola per coordinarci con gli altri, distribuire consigli e raccomandazioni, ripartirci ruoli e responsabilità; noi usiamo la parola per raccontarci, condividere esperienze, progettualità, sogni e desideri. E per evocare incanti. Ma la nostra arte affabulatoria ha bisogno di pratica: e la buona pratica si fa con i buoni libri. Nelle librerie si trovano tanti titoli, alcuni bellissimi, altri meno; su internet si trovano consigli e liste tematiche di ogni genere. La scelta è tutta nelle nostre mani: siamo noi genitori a decidere quale libro comprare o a orientare nostro figlio su un titolo piuttosto che su un altro, o ancora ad assecondarne le scelte quando si fa più grande. A fronte di una produzione editoriale tanto ricca e tanto vasta, come quella attuale, ben vengano i consigli degli esperti. Da parte mia, riferendomi alla mia personale esperienza, mi sento di aggiungere solo qualche considerazione.
Come prima cosa, bisogna guardare sempre al bambino: una storia “semplificata” può essere un’ottima storia nelle mani di un bambino che è alle prese con le sue prime storie, o che sta imparando a leggere in autonomia, ma non potrà mai offrire la stessa ricchezza di contenuti e la stessa vertiginosa profondità di una fiaba della tradizione; eppure, torna a essere una storia di grande nutrimento se, con mia figlia, ci mettiamo a evocare un ricordo comune e riprendiamo in mano lo stesso libro. Ricordo con un grande sorriso l’esclamazione di mia figlia quando ha aperto il suo primo pop-up: si trattava di un testo molto semplice, forse addirittura poche righe, ma fa ancora bella mostra di sé nella nostra libreria e lei lo riprende volentieri, magari per utilizzarlo come sfondo per le avventura che inventa con i suoi pupazzetti.
Sono convinto che ogni fiaba, ogni albo illustrato, ogni narrazione può rappresentare una porta che ci introduce in un mondo intermedio, dove siamo insieme, noi e lui, adulto e bambino: basta voler aprire quella porta e nutrire quella relazione. In cosa si distinguono allora i buoni libri, le buone storie, le grandi fiabe, i migliori albi illustrati? Beh, si tratta di veri e propri manufatti artistici e letterari che, proprio per il loro valore spiccano su tutti gli altri: testi multidimensionali che hanno la capacità di espandere questo mondo intermedio in ogni direzione che decidiamo di intraprendere insieme, noi e lui, adulto e bambino! E te ne accorgi subito che si tratta di libri e testi non comuni, perché hanno sempre qualcosa da dirci ogni volta che li riprendi in mano: al di là del gusto personale, sulla cui importanza già i latini invitavano a sospendere ogni giudizio, sono convinto che mettersi sulle tracce di questi libri e di queste fiabe è possibile, purché ci si documenti e si conservi uno sguardo curioso sul mondo.
• Molto spesso nel confronto con altri genitori, trovo una forte diffidenza nel raccontare fiabe nella versione integrale a causa della crudeltà dei contenuti. Come viene accolto questo elemento nel bambino che ascolta?
Ho avuto esperienze molto simili alla tua, le ricordo pure nel libro. Quando si parla di fiabe ci sono due pregiudizi assai difficili da scardinare: uno riguarda il lieto fine – le fiabe si concludono sempre allo stesso modo, un lieto fine che è troppo avulso da quel che succede nella realtà –, mentre l’altro riguarda la crudeltà di certe scene. È vero, le fiabe sono crudeli: il bosco è tetro e buio, il lupo famelico e selvaggio, la strega risoluta nella sua malvagità; e poi ci sono uccisioni, mutilazioni, minacce terribili. La tentazione per noi che le raccontiamo è quella di omettere le scene più cruente, continuare la narrazione, ma censurandola: così però finiamo per raccontare un’altra storia e non è detto che otteniamo l’effetto desiderato.
Proviamo a guardare la fiaba nella sua integrità: c’è tanta crudeltà, vero, ma ci sono sempre le risorse per fronteggiarla, ci sono esseri magici che ci vengono in soccorso, che ci donano qualcosa, che ci rivelano un segreto e contribuiscono, così, a rendere più agevole il nostro cammino. Le tinte più fosche ci lasciano smarriti, ma ci spingono a mettere in gioco le nostre energie più positive per cacciarle indietro: a pensarci bene, è quel che facciamo tutti i giorni con la vita che viviamo. Con la fiaba non è diverso… da questo punto di vista censurarla vorrebbe dire raccontare una storia monca, quasi insipida: senza dimenticare che la funzione dei cattivi è proprio quella di pigliare botte da tutti e che, se la storia si fa troppo spaventosa, è pronto a intervenire la mamma o il papà con la sua ciabatta! A volte, sapere che potrà contare su di noi, che siamo accanto a lui in questa fantastica avventura scaccia via ogni paura.
Dunque, raccontarle integralmente o no? Al riguardo, sono convinto con il prof. Dallari dell’Università di Trento che la censura, se proprio va fatta, deve essere preventiva, nel senso che bisognerà saper scegliere la fiaba più adatta al nostro piccolo ascoltatore e il momento migliore per proporgliela, nella certezza che solo così saprà accoglierla con generosità e assimilarne adeguatamente i contenuti. Siamo, dunque, noi genitori, noi adulti in generale, che dobbiamo farci mediatori tra lui e il racconto che gli proponiamo: in questo senso, non c’è una ricetta buona per ogni stagione, ma dobbiamo avere cura del bambino cui ci rivolgiamo.
• Nel tuo libro “Mi racconti una storia? Perché narrare fiabe ai bambini” (Meltemi edizioni) citi spesso “l’impegno della presenza”. Cosa intendi? A questo proposito qual è il ruolo di noi genitori nella relazione tra il bambino e la fiaba?
Ne abbiamo appena mostrato un esempio. Il racconto orale, la lettura ad alta voce, la fiaba della buona notte sono esperienze profondamente relazionali: il bambino è con noi e noi con lui, siamo insieme nello stesso racconto. Scegliamo il libro da leggere, creiamo l’atmosfera giusta, aggiustiamo il tono e la voce: tutto fa parte di una precisa ritualità che ci vede protagonisti, noi e lui, fin dal primo momento. Ecco perché – suggerisco nel libro – dobbiamo essere sempre dalla sua stessa parte, dal momento della proposta e per tutto il tempo del racconto: proviamo ad allontanare pensieri e preoccupazioni e a dedicarci interamente a questa esperienza condivisa. Accogliamo le sue domande, le sue interruzioni, le sue richieste di ripetere, dedichiamogli la nostra lettura come un dono d’amore. A questo proposito Pennac insiste tantissimo sulla gratuità della nostra lettura per lui, anche quando ha imparato a leggere da solo: non lasciamolo solo in questo momento che è anche nostro. Rodari usa parole bellissime per descrivere il momento in cui il bambino, al caldo sotto le coperte, sente con assoluta fiducia che la mamma e il papà sono lì per lui, che è veramente il centro del loro mondo. Certo non è facile, la quotidianità ci mette tutti a dura prova; è una pratica impegnativa, che richiede costanza. Ma – e parlo per esperienza personale – è un’esperienza assolutamente nutriente per la nostra genitorialità.
• Viviamo in una società in cui tutto deve avere uno scopo, una finalità. Ne sono testimonianza i numerosi “libri a tema” di cui è ricca l’editoria per l’infanzia. Il libro viene spesso considerato un mero strumento per insegnare qualcosa al bambino, eludendo il suo valore artistico. Come si colloca la fiaba in questa realtà?
Il tema che sollevi è assai antico se è vero che già nel XVI secolo in Germania era diffusa l’immagine ora nota come “imbuto di Norimberga”, nella quale si vede un maestro mentre cala nella testa di un bambino seduto nozioni di ogni tipo servendosi proprio di un imbuto. In generale, è più pratico credere che l’educazione consista nel riempire un contenitore vuoto ed è tanto più comodo che continuiamo a comportarci come fosse vero, anche se le evidenze scientifiche ci condurrebbero in tutt’altra direzione. Come ricordavi tu, anche nell’attuale produzione letteraria dedicata ai bambini ci sono tantissimi titoli – i così detti “albi a tema” – dove l’operazione narrativa consiste proprio nel dimostrare al piccolo lettore che cosa si deve fare in determinate circostanze: semplificando un po’, ritroviamo lo stesso schema narrativo delle favole, che concludono sempre con la morale finale.
Con le fiabe le cose stanno diversamente: il loro simbolismo ci invita a riflettere in profondità rispetto alla dinamica narrata, mettendo al centro i nostri contenuti e giocando in prima persona. Seguendo l’eroe e le sue vicende, siamo liberi di sperimentare soluzioni per noi stessi, definire strategie, metterci alla prova: si tratta di un apprendimento diretto, che si consolida narrazione dopo narrazione, con il tempo e con la pratica. Da questo punto di vista, il simbolismo fiabesco sembra fatto apposta per non servire funzionalmente a nient’altro che a nutrire la nostra esperienza: mentre bighelloniamo in compagnia di personaggi magici e animali parlanti, affiancandoli nelle loro avventure, impariamo qualcosa su noi stessi e il mondo che ci circonda, le antiche ragioni del passato e le svariate possibilità del futuro.
• Hai delle fiabe alle quali sei particolarmente legato?
Due su tutte: Il Gatto con gli stivali, perché rimango ogni volta affascinato da come il gatto si tira d’impiccio nella sfida con l’orco. Ricordi? Come prima cosa, il Gatto chiede all’orco se è in grado di trasformarsi in un essere mostruoso, ma quando l’orco lo fa per davvero, il Gatto si spaventa e, nel tentativo di arrampicarsi su una trave, scopre che gli stivali gli sono di intralcio… proprio gli stivali magici che lo avevano reso quel che era. La paura funziona così: ci degrada e, quando c’è lei, nemmeno le nostre risorse ci sono d’aiuto, anzi, ci intralciano. Ma se guardiamo dritto negli occhi la nostra paura e troviamo il mondo di renderla piccola piccola, forse riusciamo anche a papparcela in un sol boccone: che lezione straordinaria!
L’altra fiaba è I Musicanti di Brema perché ha rappresentato per me il passaggio dalla letteratura fiabesca agli albi illustrati. Ho recuperato questa fiaba in occasione di un mio laboratorio filosofico per bambini e ho scoperto che l’edizione di Orecchio acerbo, con le illustrazioni della bravissima Claudia Palmarucci, faceva proprio al caso mio: la mia intenzione, infatti, era parlare ai bambini del totem, rievocando la scena finale della fiaba; ma quando ho avuto tra le mani l’albo, guardando la copertina, ho avuto come una folgorazione e ho scoperto che nella dinamica tra testo e illustrazioni si potevano aprire spazi molto interessanti per la riflessione filosofica che volevo condurre insieme ai bambini.
Da quella volta ho scoperto tantissimi titoli che mi hanno permesso di ideare laboratori filosofici veramente interessanti: da quell’esperienza è nata Fiaba-So-fando, il mio progetto di pratiche filosofiche per bambini che quest’anno ha vinto il Premio nazionale di filosofia, organizzato dall’Associazione Professionisti Pratiche Filosofiche di Certaldo.
• In conclusione mi piacerebbe sapere come sei passato dallo studio delle fiabe alla scrittura delle stesse.
Per rispondere a questa domanda dobbiamo ritornare alla mia biografia, all’esperienza con mia figlia Anna Giulia, dal momento che le mie fiabe le ho scritte proprio per lei, per accompagnarla nel suo percorso terapeutico. Come racconto nel libro, ci siamo rivolti alle fiabe non perché volessimo che servissero a qualcosa, che ci aiutassero a risolvere un problema, che indicassero ad Anna Giulia cosa fare: la verità è che ci siamo rivolti alla letteratura fiabesca perché – di fronte a quella violenta interruzione biografica – non avevamo più parole per parlare, non riuscivamo ad attivare nessun altro canale comunicativo. Ci siamo appropriati di parole e simboli in un momento in cui non avevamo altre frecce al nostro arco.
Nel libro utilizzo il termine “fiaba-terapia” ma non in senso tecnico (l’espressione è usata, infatti, dagli psicoanalisti di matrice junghiana per riferirsi alla pratica di portare in analisi un contenuto psicologico attraverso il simbolismo della fiaba). Personalmente sono convinto che ogni narrazione che si rivolga proprio a noi sia per ciò stesso autenticamente terapeutica, nel senso che si prende cura di noi, del nostro disagio e del nostro bisogno: lo fa semplicemente parlandoci, restituendoci la sensazione di essere compresi e offrendoci la possibilità di chiarire a noi stessi pensieri ed emozioni. Per il modo in cui si è venuta a definire nel corso dei secoli, attraversando varie culture e diversi paesi, la fiaba è forse la narrazione più potente da questo punto di vista, appartenendo veramente all’umanità nella sua interezza. Partendo da queste suggestioni, non ho fatto altro che portare nel racconto i miei contenuti, provando ad aggiungere la mia voce a quella, ben più profonda e significativa, dei cantastorie millenari.